
Ma io che cosa ti devo dire?
Che cosa può esserci che non ti ho raccontato, nella mia testa, giorno per giorno, in questi ultimi trent’anni?
Dalla mia prima fidanzatina alla morte di De André (mi sembra di sentire il tuo “nooo”, me lo ricordo ancora adesso con una perfezione tale che è come se qualcuno fosse stato capace di tradurlo in immagini da tatuarmi poi sulla pelle) passando per la maturità, la laurea (eh oh, lo so), la patente, la chitarra, dalle Torri Gemelle all’euro e, in mezzo, lo scudetto, che lo so che ti fregava il giusto ma quell’entusiasmo che ci mettevi solo, credo, per fare contento me è una delle cose più belle che io ricordi, e pensa!, proprio un paio di giorni fa ho lavato la maglietta che mi hai regalato, che non la lavavo dal ’91 per una sorta di timore scaramantico, e va bene che l’avrò indossata sì e no vabbè ok, forse non è il caso di stare qui a contare comunque sì, finalmente sono grande, ho un lavoro (o almeno avevo, fino a oggi, mo domani vediamo) e ho una lavatrice tutta mia e insomma, niente, l’ho lavata e dicevo, tornando alle cose da raccontarti, ma come si fa? Sono trent’anni, non riesco nemmeno a ricordare cosa è successo…. per dire… venticinque anni fa, quindici, sette, che possa interessarti.
Trent’anni. Hai idea di quanti sono? Sai quante cose non esistono più? Il Concorde, la lira, i rullini, le cabine telefoniche, i videoregistratori, Lunedìfilm, quei monitor enormi, il videotel, l’Amiga, cioè alcuni esistono ancora ma è come se non ci fossero più. E poi sono scomparsi decine, decine dei tuoi miti ma questo forse è piuttosto ovvio.
A un certo punto mi perdo, perché papà, ma come si fa? Ma cosa devo dirti? Da dove comincio a raccontarti trent’anni di cose successe? Mi dispiace che tu non abbia mai visto internet, quello sì, e tutto ciò che ne è seguito nel mondo, perché lo so che ti sarebbe piaciuto, saresti impazzito, avremmo fatto mille cose da nerd in tutti quei capannoni di altri nerd in cui mi portavi e facevano “le cose coi computer” e io ogni volta, ogni singola volta, cristo!, tornavo microscopico (te lo ricordi quando mi chiamavi “microbo”?) e mi sembrava che il tempo, ogni volta, ogni singola volta, si riavviasse come in un film e io potevo tornare indietro, fare scelte diverse, ma a quell’età che scelte vuoi fare? E insomma, scusami mi sono perso, dicevo, questa rivoluzione digitale ti sarebbe piaciuta davvero tanto, pa’, fidati, e non siamo nemmeno a metà degli anni ’90 con la storia e io ho già troppe cose da raccontarti che sinceramente, pa’, non ce la faccio, sono troppe, non riesco nemmeno a riprendere fiato se penso a quante cose vorrei raccontarti se avessi il tempo.
Posso dirti che ho perso la tua penna preferita (ok, non sono stato io, ma è stata colpa mia) ma ho il tuo orologio, i tuoi occhiali, l’amplificatore (ma non il giradischi), il baracchino, la Nikon e la sua borsa, quella cravatta orribile, la lampada dell’Accademia, i floppy, il cavalletto che pesa un quintale e vorrei chiederti come facevi a portartelo appresso, e i microfoni, il portafogli, i dischi, i libri – un sacco di libri – e tante, tante altre cose, mentre tante altre sono andate perse come la tua penna. Ho la tua voce, le tue chiavi, la tua barba e la tua perenne, indomabile incazzatura col mondo.
Ho imparato a fare un sacco di cose, ho cominciato con i tuoi vecchi attrezzi e poi ho comprato i miei e ho fatto un sacco di casini e di danni e mi sono fatto male un sacco di volte e in un’occasione sono finito al pronto soccorso ma va bene, succede, ho imparato qualcosa ogni giorno e sono contento. Non so ancora fare tutte le cose che sapevi fare tu ma ho fatto pace col fatto che non imparerò mai, non importa. Ne so fare altre, sono belle lo stesso.
La tua pasta è ancora un successo, ci credi? La chiamano ancora così, “gli spaghetti alla Sandro”. Quell’idea del rosmarino è diventata leggendaria. Io ho aggiunto una cosa perché mi piace l’idea che sia anche mia, però quando sono da solo a casa e la faccio per me la faccio come la facevi tu.
Vorrei che parlassi almeno una volta con F., almeno una volta, ma anche qui, il viaggio sarebbe stato lungo e ne avresti viste di cose, di persone, di assurdità (o forse no perché, lo sappiamo, se fossi stato ancora qui tutto sarebbe andato diversamente e niente di quanto è successo si sarebbe avverato ma dai, cerca di capire, sai cosa intendo), però davvero, vorrei che con F. potessi parlare e mi piacerebbe stare lì a guardarvi, in silenzio, seduto su quel divano orrendo, verde, con quelle piccole righe bianche e nere, e seguire la vostra conversazione e vedere che mi guardi e sei contento come lo sono io (beh, quasi).
Sembra ieri pa’, tutto sembra ieri.
Ogni cosa sembre appiattita nel tempo, in un tempoche ha un’unica dimensione e quindi, su quel tempo, le cose si fondono in un unico piano ma la veritàè che sono passati trent’anni e io da molto, molto tempo penso all’arrivo di questo giorno e mi chiedo “chissà che effetto farà, cosa penserò, cosa mi verrà da scrivere su facebook (no, papà, abbi pietà ma se c’è una cosa che non ho veramente l’energia di spiegarti sono i social. Non ti interessa, fidati), e quel giorno oggi è arrivato e l’unica cosa che riesco a pensare è che io non so davvero cosa dirti, perché tutto questo è niente rispetto a quello che ho pensato negli ultimi diecimila e novecentocinquanta giorni e da dove comincio?
Che cosa ti devo dire?
Allora non era meglio se restavi? Se guardavi, insieme a me, tutti questi cambiamenti, se rimanevi qui a guardarmi mentre la mia voce diventava come la tua, e mi cresceva la tua barba e io sì, ok, mi dispiace, io andavo a fondo, a tratti, nel tempo, ma non fa niente, davvero, lo so che sembra assurdo (soprattutto agli altri che mi leggono oggi, direi) ma davvero non fa niente perché, come mi hai detto quel giorno davanti alla versione di Tito Livio, “non importa se va male ma ci devi almeno provare” e io ci sto provando, ci sto provando davvero, lo so che probabilmente non si vede ma ci sto provando tantissimo e una cosa almeno ho imparato da te, ed è la più importante e le persone la vedono e mi dicono che è una bella cosa e io sono contento quando la notano e gli piace, ed è grazie a quella lezione che oggi sono pieno proprio di quelle persone che la notano, che mi tengono su quando ne ho bisogno e mi guardano mentre ci provo e mi dicono, in un modo o nell’altro, anche se non lo sanno ma me lo stanno dicendo, “tuo padre ce l’avrebbe fatta”.
È vero, tu ce l’avresti fatta. Io, almeno, ci sto provando.
Buon anniversario, pa’.
(Va bene se piango un po’?)